Vi abbiamo già parlato di Due Diligence e della campagna Impresa2030. Scopriamo gli ultimi aggiornamenti in questo articolo.
In attesa dell’adozione da parte della Commissione Europea della Direttiva sulla Dovuta Diligenza delle Imprese (Due Diligence), è importante fare chiarezza ed approfondire alcune questioni. In particolare, è necessario evidenziare come senza le necessarie attenzioni si corra il rischio di un provvedimento che porti all’ennesima operazione di “green e social washing”. Infatti, come ben evidenziato dalla Campagna Abiti Puliti, insieme al network internazionale Clean Clothes Campaign e ad altre realtà impegnate nella tutela dei diritti umani, le certificazioni sociali non possono in alcun modo sostituire l’attività di Due Diligence.
La Due Diligence vuole essere altro
I casi di imprese socialmente certificate che, malgrado l’apparente impegno, hanno continuato a praticare condizioni inaccettabili e a perpetrare abusi nelle fabbriche è purtroppo lungo. La Due Diligence è e vuole essere altro. Due Diligence vuole essere un processo continuo, gestito dall’azienda committente, che di questo processo diventa responsabile. Un modo diverso di fare impresa, che include la sostenibilità sociale e ambientale fra i fattori produttivi e non come una “lista da spuntare” anche controvoglia!
I limiti della responsabilità sociale
Senza entrare nel merito del lavoro delle società di auditing, è importante ricordare i limiti dei sistemi di responsabilità sociale. Tra gli altri, strumenti di controllo poco adeguati, insufficienza dei mezzi per rimediare alle violazioni o ai rischi di violazione dei diritti umani, evidenze e interessi non sempre chiari.
Per questo, gli audit sociali NON sono Due Diligence: il percorso è ancora lungo e lo sforzo richiesto per costruire un sistema efficace è ancora molto elevato.
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